Le anime finte nella vita reale di Wanda Marasco

“Vincenzina Umbriello  aveva portato questo nome come un boato nella casa sul vico Unghiato…”. L’incipit dell’ultimo romanzo di Wanda Marasco contestualizza i contorni precisi di una storia dagli inequivocabili stili culturali e antropologici.

“La compagnie delle anime finte” edito in libreria per i caratteri di Neri Pozza, sin dalla copertina (uno stupefacente oleogramma di Piergiorgio Branzi) si muove nel micro universo del vicolo partenopeo, attraversandone le viscere più recondite e oscure dei protagonisti, in uno spaccato storico del mezzo Novecento.

L’indagine apparentemente circoscritta, narra con metafore accattivanti (sin dal titolo) il  gioco della finzione tra i ruoli sociali assunti dai personaggi. Svelandone la nudità delle loro anime piccole e misere in una ribalta molto più ampia e universale circa la caducità del genere umano riprodottosi sino ai nostri giorni. Il risultato è un’opera dura e cruda, addolcita da una prosa intrigante e mansueta. L’approdo del volume (presentato da Paolo Di Stefano e Silvio Perrella) nella cinquina dei testi che si contenderanno il prossimo 6 luglio alla Villa di papa Giulio a Roma, il Premio Strega 2017, non è casuale. La vicenda ha come inizio e fine il distacco dalla vita terrena. La voce narrante di Rosa al capezzale della madre morente è lo strumento che proietta la vita di soggetti diversi e lontani per luoghi natii e classi sociali. Il tema atavico dell’incontro (un eufemismo) fra la classe  povera e proletaria contadina a caccia di riscatti e fortune con la supponente casta medio borghese cittadina, produce relazioni sentimentali ostinate. Queste inaugurano nuovi vincoli familiari prossimi alla degenerazione di faide brutali e terribili rancori. L’unione fra il rampollo naif dei Maiorana (Rafele, classico “buon partito” per una moltitudine di povere sognatrici) e l’analfabeta Vincenzina, spedita dalle stalle affollate dell’agro di provincia a servizio nelle famiglie “per bene” del centro storico di Napoli, segna un viaggio nei gironi di parentele e affini. Schiere di oscuri profili degradano in un cratere di miserie e umiliazioni. Dove il desiderio di affrancarsi dal sopruso dell’arroganza e dall’egemonia dei denari e degli oggetti del desiderio (gioielli, corredi, merletti e status dei “signori”) contrasta con la necessità del “pane” quotidiano e l’avanzare della vecchiaia. Puntuale nel rabbuiare la lucidità della mente, anche la più cinica e ipocrita e corrompere carne e salute nella spietata avanzata della malattia. Insiste nella sequela febbrile delle pagine un dedalo di ambienti stantii, raffigurati nel tufo dei bassi e in abiti succinti. Talvolta lacerati e sporchi che a mala pena coprono corpi violati e sofferenti, sfregiati da una ipocrisia dilagante. In questo mercimonio di umane passioni, il giogo austero e narrativo dell’autrice è leggero e compassionevole, incline alla riparazione. Colpa e espiazione non inducono al giudizio che non appartiene alle anime di questa terre. Finte o vere che siano, queste producono gioie e dolori, coraggio e paure, arnesi indispensabili dell’umano passaggio terrestre. Sentimenti che legano famiglie in modalità antiche che si ricongiungono alle nostre vite contemporanee. Con dei gesti scontati oltre il banale immaginario del nostro senso del pudore. Il patos letterario dai tratti poetici è potente e illuminante, quasi da poter stregare, lettori o giurati.

Luigi Coppola