La Cassazione sui furbetti del cartellino

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 25.5.2016 n. 10842, si è occupata di una pratica di cui ultimamente si parla sempre più spesso: i furbetti del cartellino. Il caso esaminato riguarda il licenziamento per giusta causa intimato nel 2008 da Poste Italiane ad un suo dipendente per aver autorizzato un proprio collega a timbrare il suo badge identificativo al fine di far risultare l’entrata in ufficio alle ore 11.35 ed essersi, invece, effettivamente presentato in ufficio alle ore 12.25. Secondo la Corte di Appello chiamata ad esaminare la condotta del dipendente in sede di riesame, questo comportamento può ritenersi sufficiente per affermare che il dipendente ha leso irrimediabilmente e gravemente il vincolo fiduciario sussistente nei confronti del datore di lavoro.
Gli ermellini hanno evidenziato nella suindicata sentenza come la Corte d’Appello si sia mossa dal presupposto secondo cui per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento (data dalla grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario) occorre valutare diversi fattori.

Per giurisprudenza consolidata, difatti, il significato di giusta causa nell’ambito del licenziamento disciplinare, si sostanzia in un concetto indeterminato, e, pertanto, l’accertamento deve essere svolto in base agli specifici elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie concreta, quali tipo di mansioni affidate al lavoratore, il carattere doloso o colposo dell’infrazione, le circostanze di luogo e di tempo, le probabilità di reiterazione dell’illecito, il disvalore ambientale della condotta quale modello diseducativo per gli altri dipendenti. Richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali, la Suprema Corte ha evidenziato come la falsa timbratura del cartellino può rappresentare una condotta grave tale da determinare la lesione dell’elemento fiduciario “su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro è stata in concreto tale da giustificare la massima sanzione disciplinare, in conformità con il costante orientamento di questa Corte in materia di cui costituisce corollario il principio dell’autonomia della valutazione di un fatto in sede disciplinare e delle prove ivi accolte, rispetto a quella effettuata in sede processuale”.
Maria Grazia Palmarini