L’ultimo saluto a Dario Fo in Piazza del Duomo a Milano

La cerimonia funebre per Dario Fo si è aperta con una canzone, “Stringimi forte i polsi”, scritta da Leo Chiosso e dallo stesso Fo, ma soprattutto era la sigla di Canzonissima del 1962. Quell’edizione della kermesse musicale Rai fu particolare, non solo per la conduzione, proprio di Dario Fo e Franca Rame, non solo per la sigla finale, che venne cantata da Mina, che poi la inserì nell’album “Renato”, ma perché fu l’edizione in cui i testi, scritti da Chiosso e Fo, vennero censurati dopo una serie di sketch che avevano citato la mafia in Sicilia e le morti sul lavoro, che furono tra gli episodi più controversi della vita professionale del Giullare varesino. Franca Rame e Dario Fo lasciarono la trasmissione e tutti i nastri furono distrutti, tranne alcuni spezzoni in pellicola. «Stringimi forte i polsi/Dentro le mani tue/E ascolta ad occhi chiusi/Questa è la mia canzone». Grazie compagni, grazie. Commosso e con il pugno chiuso, Jacopo Fo ha salutato così al termine del suo intervento le migliaia di persone arrivate in piazza Duomo a Milano per l’ultimo saluto al padre, Dario Fo.

A tenere l’orazione funebre per il premio Nobel è stato Carlin Petrini, amico fraterno di Dario Fo.  In questa giornata “che celebriamo è meglio essere generosi che avari. Noi stapperemo le bottiglie, canteremo, balleremo, faremo l’amore, ritroveremo la gioia straordinaria di chiamarci compagni e compagne non solo perché condividiamo il pane, ma anche la gioia, la fraternità e questo nostro amore reciproco, senza cattiverie”. Così il fondatore di Slowfood. “Oggi celebriamo il più grande tra di noi, che aveva la capacità di dileggiare i potenti con uno sberleffo. Allegri bisogna stare perché troppo piangere non rende onore ai nostri amici e perché celebriamo la vita”.

Lutto in città, per l’artista scomparso giovedì scorso all’età di 90 anni nel giorno in cui assegnavano il premio Nobel per la Letteratura da lui vinto nel 1997. Dopo la camera ardente allestita allo Strehler, lo stesso teatro davanti al quale tre anni fa urlò l’ultimo ciao alla moglie Franca Rame, è partito il corteo di familiari, amici e cittadini con in sottofondo le note musicali degli Ottoni a scoppio, banda di strada che Fo amava tanto, per accompagnare il feretro sul sagrato del Duomo, concesso per la prima volta per celebrare una cerimonia laica.

Fo aveva da anni una malattia ai polmoni che, inesorabilmente, è peggiorata, anche se lui fino all’ultimo ha avuto “una capacità respiratoria impressionate” secondo Delfino Luigi Legnani il direttore del reparto di pneumologia, dove è stato ricoverato 12 giorni. E anche lì non ha smesso di lavorare. Accanto a lui “sempre” il figlio Jacopo, e una serie di collaboratori, che gli leggeva i giornali e con cui discuteva. D’altronde nel salotto del suo appartamento milanese, su una porta, il premio Nobel aveva appeso un foglio con una citazione di Matisse in francese: “Non si può evitare di invecchiare, ma si può evitare di diventare vecchio”, una massima a cui si è sempre attenuto.  Fo ha raccontato il figlio “ha recitato il primo agosto davanti a tremila persone e con un gravissimo problema polmonare è riuscito a cantare. Il primario ci ha detto: “io sono ateo ma adesso credo ai miracoli”.

 

Nicola Massaro