Licenziamento via Whatsapp

Con ordinanza del 27 giugno 2017 il Tribunale di Catania – sez. Lavoro – ha statuito che il licenziamento intimato ad un dipendente a mezzo Whatsapp avesse pienamente assolto l’onere della forma scritta di cui all’art. 2 della L. 604/1966. Nel merito, il lavoratore ha dapprima impugnato il licenziamento ritenendolo illegittimo – ratificando, dunque, l’intimazione avvenuta in via “informale” –  determinando il rigetto del successivo ricorso per il decorso ex art. 6 L. 604/1966 dei termini di legge, a pena di decadenza.

La Corte di Merito ha ritenuto che il messaggio Whatsapp fosse comunque da assimilare ad un documento informatico in grado di: identificare – da un lato – il mittente (datore di lavoro) e – dall’altro lato – il destinatario (lavoratore); fornire una prova inconfutabile tanto – al pari di una PEC – dell’avvenuto invio e ricezione del messaggio, quanto dell’avvenuta lettura dello stesso: come noto ai più, le “doppie spunte grigie” indicano l’effettiva ricezione del messaggio, le “doppie spunte blu” l’effettiva lettura dello stesso; individuare con precisione data ed orario di invio, ricezione e lettura, al pari di qualsiasi altro strumento “ordinario” (raccomandata, PEC, telegramma).

In tema di forma scritta, la Suprema Corte di Cassazione ha più volte già ribadito che non sussiste l’onere di adoperare formule sacramentali per l’intimazione del licenziamento, purché questa avvenga in forma scritta: la volontà del datore di lavoro può essere comunicata anche in via “indiretta” purché chiara ed imputabile effettivamente allo stesso. La rilevanza formale del messaggio Whatsapp va, piuttosto, analizzata sotto il profilo della “paternità” del messaggio, ovvero del soggetto che effettivamente trasmette il messaggio. In tema di vizio di rappresentanza, infatti, è stato più volte chiarito dalla giurisprudenza che, ai sensi dell’art. 1399 c.c., è possibile ratificare con effetto retroattivo – fatti salvi i diritti dei terzi – il contratto concluso da un soggetto privo di rappresentanza. Tale principio è applicabile anche ai negozi unilaterali, come l’atto di recesso dal rapporto di lavoro. Ebbene si noti che, nel caso di “falsus procurator” è il “falso rappresentato”, ovvero colui che si presumeva avesse trasmesso la comunicazione (non quindi il soggetto destinatario della comunicazione, in questo caso il lavoratore).

Appare, dunque, plausibile la possibilità che l’intimazione di licenziamento trasmessa a mezzo Whatsapp abbia un’effettiva rilevanza tanto formale quanto giuridica: anche il diritto del lavoro, ormai, non può esimersi, sembra, dallo stare al passo con i nuovi mezzi informatici.

Maria Grazia Palmarini