Meno mobbing e più straining nuovi spazi di tutela dei lavoratori

mobbing e straining
Meno mobbing e più straining

In un clima, frutto dei tempi, in cui le condizioni di lavoro e le tutele dei dipendenti che si pensavano stabilmente acquisite sembrano essere erose da interventi legislativi di altre epoche, la giurisprudenza sta progressivamente delineando un nuovo perimetro di salvaguardia delle condizioni psicofisiche dei lavoratori, seppure in assenza di una specifica disciplina di legge.

Come infatti, in assenza di norme, il mobbing può dirsi oramai individuato nei suoi elementi essenziali dalle singole sentenze che ne hanno progressivamente caratterizzato i requisiti, va registrato parallelamente il riconoscimento, sempre in via giurisprudenziale, del fenomeno statisticamente ben più diffuso, denominato comunemente straining (dall’inglese “to strain”: mettere sotto pressione). Si tratta, come si esporrà di seguito, dell’evidenziarsi di un grave disagio lavorativo consistente in una situazione conflittuale di stress forzato sul luogo di lavoro con effetti negativi di tipo psicofisico ed esistenziali, differente, da un lato, dalla comune tensione occupazionale, e dall’altro non propriamente classificabile come mobbing, in difetto dei presupposti della ripetitività delle condotte vessatorie e dell’intento persecutorio protratto nel tempo.

La giurisprudenza ha delineato, in sostanza, una condizione psicologica più lieve del mobbing, ma comunque tale da modificare peggio, in maniera costante e permanente, la condizione lavorativa del dipendente; per la sua integrazione non si richiede pertanto la continuità delle condotte persecutorie, essendone sufficiente solo una, purchè i suoi effetti negativi si protraggano nel corso del tempo. La dequalificazione, l’isolamento, la privazione degli strumenti di lavoro, l’obbligo di prestazione lavorativa in un ambiente ostile sono le classiche ipotesi per le quali potrebbero non sussistere tutti gli elementi del mobbing (mancando la prova dell’intento persecutorio), ma che sono sicuramente incidenti sulla autostima, qualità della vita, socialità del lavoratore, a cui può derivare non solo un danno professionale, ma anche biologico e esistenziale. Ricordiamo che ai fini della configurabilità della condotta “mobbizzante” il lavoratore, sui cui grava l’onere di provare in giudizio la ricorrenza di tutti gli elementi, dovrà dare dimostrazione di: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi” (Cass. Lav. n. 17698 del 06/08/2014).

Come si vede e come peraltro evidenziato dalla scarsità di pronunce favorevoli ai dipendenti, allo stato dell’arte la possibilità di ottenere una condanna per mobbing è particolarmente ardua per le sue evidenti difficoltà probatorie. La costruzione delle ipotesi di responsabilità datoriale per straining, le cui caratteristiche sembrano particolarmente diffuse nell’ambito del lavoro bancario, richiede uno sforzo probatorio apparentemente più lieve a carico del lavoratore, che sarà tenuto comunque a dimostrare le mancanze del datore di lavoro (obbligato ex art. 2087 c.c a garantire le condizioni dei dipendenti), sia il pregiudizio subito in conseguenza delle condotte di straining ed i suoi effetti permanenti. Fra le condotte ostili che dovranno essere provate in giudizio si annoverano senz’altro la ingiustificata privazione degli strumenti di lavoro, l’assegnazione di mansioni non compatibili con le condizioni di salute del dipendente, la forzata inattività mediante sottrazione di compiti e responsabilità acquisite; condotte non necessariamente reiterate nel tempo, ma con effetti permanenti. Ricordiamo che la generale disciplina dell’art. 20187 c.c. (e del complesso di norme pone a carico del datore di lavoro non solo un obbligo, in via diretta, di generale tutela della integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro; ma anche un indiretto obbligo di attivarsi in via preventiva, per tutelare le condizioni lavorative del dipendente, nel cui ambito può sorgere una responsabilità risarcitoria qualora la parte datoriale non adoperi fattivamente per rimuovere le condizioni di disagio lavorativo di cui abbia o debba avere conoscenza e che costituiscano fonte di pregiudizio per il lavoratore.

Quando dalle condotte ostili e stressanti derivi al lavoratore un danno ingiusto (biologico, patrimoniale o non patrimoniale), potrà essere richiesto un corrispettivo risarcimento, quantificando il danno prevalentemente per via medico-legale. In sostanza, il fenomeno dello straining si attaglia alle più disparate realtà aziendali e risulta al momento grandemente sottovalutato, nonostante la evidente e grandissima diffusione, riscontrabile facilmente dall’ascolto delle voci dei lavoratori di vari settori, in particolare di quello bancario.

Avv. Massimo Degli Esposti