40 anni fa la legge Basaglia cambiò per sempre la concezione di malattia mentale

Molti ritengono che la legge Basaglia, la legge 180 del 1978, di cui quest’anno si celebra il quarantennale, sia la legge che ha chiuso i manicomi; in realtà essa ha rappresentato soltanto l’inizio di un processo culturale e politico molto più complesso., che ha portato il nostro Paese ad una rivoluzione copernicana in campo medico e sociale nella diagnosi e nel trattamento delle patologie mentali.

Basaglia, promotore di questa rivoluzione, fu il medico che mosse una critica radicale nei confronti dei manicomi; nel 1961 divenne direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia ed è lì che iniziò a rendersi conto delle condizioni disumane in cui versavano le persone recluse nei manicomi: sbarre, contenzione, elettroshock. A Trieste nel 1971, Basaglia dovette affrontare il problema degli esuli istriani: 300mila persone scappate dal loro Paese che stentavano ad adattarsi alla nuova realtà industrializzata italiana. Arrivato in manicomio trovò ad attenderlo 1300 persone, un numero spropositato per una singola città.

Iniziò dal Friuli, quindi, la sua lotta al sistema vigente, partendo dal considerare i pazienti come esseri umani, persone dotate di una propria identità, e non come numeri; rifiutò gli strumenti della tecnica psichiatrica, in particolar modo tutte quelle terapie volte a provocare uno shock e introdusse, per la prima volta, dei pazienti alla terapia di gruppo, per aiutarli a condividere insieme agli altri i propri problemi e renderli protagonisti della loro stessa vita, con l’obiettivo primario di favorire la riabilitazione della persona. In quegli anni, infatti, vigeva una legge del 1904 che stabiliva quale principio giuridico quello della pericolosità degli internati, i quali, dunque, dovevano essere trattati quasi come prigionieri. Ma, con la chiusura dei manicomi nel 1978, Basaglia riuscì a far passare in Parlamento l’idea che il disturbo mentale dovesse essere trattato attraverso la socialità: un disturbo mentale grave comporta un degrado sociale, una distanza dagli altri, un isolamento e una stigmatizzazione, fino alla perdita del lavoro e della dignità; fare in modo che le persone non precipitino, garantendo loro dei rapporti umani, invece che bombardarli di farmaci, è il modo più efficace per ottenere risultati positivi su questi pazienti.

Questo è stato il grande merito di Franco Basaglia ed oggi, a distanza di 40 anni dalla definitiva chiusura dei manicomi, questo approccio sembra essere ancora l’unico perseguibile e migliorabile, tant’è che   si discute, per la prossima legislatura, di poter destinare il 5% della spesa sanitaria nazionale per la salute mentale.

Rossella Marchese