Ridicolizzare e infastidire il collega configura il reato di atti persecutori

In base alla sentenza n. 18717 del 2 maggio 2018 della Corte di Cassazione, Prima Sez. Penale, commette il reato di atti persecutori di cui all’articolo 612-bis c.p., il soggetto che pone in essere comportamenti volti a ridicolizzare e infastidire il collega di lavoro, esponendo lo stesso alla derisione collettiva e suscitandogli sentimenti di imbarazzo e vergogna.

Il caso portato all’attenzione della Suprema Corte riguarda la sentenza di condanna di un lavoratore per il ridetto reato, consumato nei confronti di un collega di lavoro, soggetto invalido per un deficit psichico e in ragione di diverse patologie.

L’imputato proponeva ricorso lamentando, tra i vari motivi, vizio di motivazione in merito all’accertamento del nesso di causalità tra la condotta del prevenuto e il successivo abbandono del posto di lavoro da parte della persona offesa.

La Corte ha ritenuto immune da censure l’accertamento, compiuto dai giudici di merito all’esito dell’istruzione espletata, del compimento quasi quotidiano di atti e comportamenti di dileggio nei confronti della persona offesa, quali le frequenti “prese in giro” della vittima. Nessun dubbio in ordine alla natura vessatoria dei comportamenti assunti dal ricorrente con una frequenza per nulla sporadica e isolata, da ritenersi intrinsecamente molestie per chiunque, nonché per la vittima, tenuto anche conto delle caratteristiche personali di quest’ultima, da tutti conosciute nell’ambiente di lavoro, in quanto immediatamente percepibili e in ragione del fatto che la stessa era stata assunta beneficiando delle quote riservate per i soggetti disabili. Tali condotte non esaurivano la loro portata offensiva quale scherzo occasionale, in quanto “insistite e oggettivamente in grado di compromettere il benessere psicologico e la serenità di chi le aveva subite”.

Quanto al nesso causale, nel corso del dibattimento era stato accertato, attraverso l’esame testimoniale della vittima e la documentazione medica, che, a causa delle condotte dell’imputato, la persona offesa era stata costretta a ricorrere alle cure dei sanitari, aveva sviluppato un grave stato ansioso, a causa del quale si era dovuto assentare dall’attività, motivo del suo successivo licenziamento, con grave pregiudizio patito per l’impossibilità di maturare l’anzianità pensionistica.

Non essendo il ricorso colpito da inammissibilità, purtroppo, la Corte di Cassazione ha rilevato che il reato per cui vi era stata condanna era estinto per prescrizione e, pertanto, ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata.

Maria Grazia Palmarini