Con l’Avv. Prof. Umberto Aleotti, docente di Diritto internazionale presso la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici di Maddaloni e cultore di Diritto internazionale dell’economia presso l’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”, ieri abbiamo parlato dei possibili provvedimenti che l’Unione europea può mettere in campo per l’emergenza Covid-19. Vediamo, oggi, cosa può concretamente fare la BCE.
Quale politica monetaria sta mettendo in campo la BCE?
La Banca centrale europea sta attuando una politica monetaria di tipo “espansivo”, che, naturalmente, riguarda solo gli Stati membri dell’Unione che hanno adottato la moneta unica. Tale politica si pone in linea con gli orientamenti a cui ha dato vita negli ultimi anni la B.C.E. e che si possono sintetizzare con il noto “whatever it takes”, inaugurato dal suo precedente presidente, Mario Draghi, al fine di preservare l’area euro e l’unione monetaria dalle conseguenze di eventi negativi, come una sfavorevole congiuntura economica, o addirittura catastrofici, come la pandemia in atto.
La politica espansiva è in primo luogo composta da operazioni di “allentamento quantitativo” (“quantitative easing”), cioè da interventi sul mercato economico degli Stati membri dell’unione monetaria effettuati dalla Banca centrale per immettere (“pompare”) liquidità, non solo attraverso la creazione di nuova moneta ma anche attraverso un consistente acquisto di titoli in euro, per provocare, con la diminuzione dei tassi di interesse, l’abbassamento del loro rendimento e l’alleggerimento dei debiti pubblici. La diminuzione dei tassi di interesse, dovuta alla maggiore liquidità in circolazione, determina a sua volta la riduzione dei costi legati ai prestiti che le famiglie o gli operatori economici possono voler richiedere per effettuare acquisti, favorendo la crescita della domanda complessivamente intesa (consumi e investimenti).
Altro tipo di operazioni della politica espansiva sono le operazioni di “rifinanziamento mirato a lungo termine” (“targeted long term refinancing operations”) del sistema finanziario, che consistono in aste di liquidità nelle quali la Banca centrale europea concede, dietro garanzia, prestiti a lungo termine alle banche nazionali a tassi di interesse molto agevolati, purché le somme concesse siano utilizzate dalle banche per sostenere a basso costo la domanda di beni di consumo (consumi) e beni capitali (investimenti). Ancora una volta, si tratta di operazioni finanziarie che servono a immettere liquidità nel sistema economico.
Cosa sono i Coronabond o Eurobond e che può fare rispetto ad essi l’Unione europea?
Nel rispondere, riprendo la distinzione accennata in precedenza tra il piano su cui si muove l’Unione europea e il piano su cui si muovono gli Stati membri. In questo settore, che concerne l’emissione di titoli per finanziare la spesa pubblica destinata a far fronte ad un’emergenza sanitaria, l’Unione europea non ha ancora peculiari competenze. Devono, pertanto, entrare in azione gli Stati membri, che devono confrontarsi al massimo livello, vale a dire all’interno del Consiglio europeo, che è un’istituzione in cui siedono i Capi di Stato e di Governo, oppure a livello ministeriale, all’interno del Consiglio dell’Unione.
Il bond è un titolo obbligazionario che, com’è noto, può essere emesso da un ente sia pubblico sia privato, il quale consente, all’ente emittente, di acquisire la liquidità di cui ha bisogno per affrontare le spese che ha pianificato e, a colui che acquista il titolo, di ottenere alla scadenza convenuta la somma pagata quale prezzo di acquisto del bond, più gli interessi pattuiti. Lo Stato emette quindi bond, quando ha la necessità di finanziare una parte della spesa pubblica con somme che acquisisce tramite la vendita di tali titoli, rendendo così gli investitori partecipi di essa.
Sì ma l’Italia non ha proposto l’istituzione di “Coronabond”?
Nell’ultima riunione del Consiglio europeo del 26 marzo scorso, l’Italia, rappresentata dal suo presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha proposto l’istituzione di titoli obbligazionari europei, i “Coronabond” o “Eurobond”, o anche, secondo l’ultima definizione, “European recovery bond”, per finanziare, attraverso un debito comune, le spese che tutti gli Stati membri devono affrontare per l’emergenza COVID-19. L’idea sottende la volontà di dar vita, pur in occasione di una situazione emergenziale, ad una nuova fase dell’Unione, nella quale gli Stati membri, limitatamente al particolare contesto sanitario, si troverebbero a sperimentare l’unione delle rispettive politiche fiscali.
Le difficoltà sono, tuttavia, sia tecniche che politiche. Le difficoltà tecniche sono legate all’individuazione dell’organo dell’Unione che dovrebbe concretamente emettere questi titoli. Non essendo ancora disciplinata nei Trattati una politica fiscale comune, non esiste infatti un’istituzione competente per l’Unione ad emettere titoli pubblici, quali dovrebbero essere gli European Recovery Bond. Non può farlo la Banca centrale europea e neppure la Commissione europea. L’unico organo dell’Unione che è già previsto possa compiere azioni finanziarie di questo genere è la Banca europea per gli investimenti, che, statutariamente, oltre ad “erogare” prestiti, può anche “assumere” prestiti dal mercato finanziario, tramite l’emissione di obbligazioni. L’ostacolo è, tuttavia, costituito dall’esiguo capitale di cui la Banca è dotata, frutto di conferimenti pro quota compiuti da ciascuno Stato membro in relazione al proprio prodotto nazionale lordo, calcolato al momento dell’adesione all’Unione, che è inadeguato a far fronte ad una pandemia come quella dovuta al Coronavirus.
Le difficoltà politiche sono legate alla tradizionale opposizione di Stati membri dell’Unione europea come i Paesi Bassi, la Germania, la Finlandia e l’Austria (Stati cd. virtuosi), da sempre sostenitori del rigore finanziario, a qualsiasi soluzione che sia diretta a realizzare un’unione fiscale alternativa a quella intrapresa, da un lato, con il fiscal compact, l’accordo in precedenza menzionato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’unione economica e monetaria, e, dall’altro, con il collegato strumento finanziario del MES, il Meccanismo europeo di stabilità, che costituisce un fondo autonomo europeo, istituito sulla falsariga del Fondo monetario internazionale, il quale acquista titoli sul mercato finanziario e emette prestiti per assicurare assistenza agli Stati membri in difficoltà “grave e conclamata”, a condizioni però molto severe, che possono andare dal rispetto costante di condizioni economiche di ammissibilità prestabilite all’imposizione di un programma di correzioni al sistema economico nazionale dello Stato interessato.
Il dissidio politico nasconde in realtà due visioni distinte dell’integrazione in Europa, una nord europea, l’altra sud europea, la prima poco incline a concedere sconti, anche in presenza di situazioni statali di evidente difficoltà e condizioni finanziarie di Stati più virtuosi che potrebbero invece consentirli (la Germania, ad esempio, ha stanziato per l’emergenza pandemica a livello nazionale la somma di circa mille miliardi di euro, preceduta nel mondo solo dagli Stati Uniti), per il presumibile timore di dover in qualche modo condividere gli elevati debiti pubblici di contesti nazionali europei, come quello italiano; la seconda solidaristica e propensa a cercare una strada inter pares, priva di zavorre finanziarie di partenza, suscettibili di rallentare lo sviluppo economico degli Stati coinvolti.
Questo contrasto ha posto l’Unione europea in una situazione di stallo?
Il contrasto, nonostante la posizione italiana abbia raccolto molti consensi (ben quattordici Stati favorevoli, tra cui Spagna e Francia), ha generato un nulla di fatto nel vertice “telematico” europeo dello scorso 26 marzo e ha suggerito il rinvio della soluzione del finanziamento europeo dei costi connessi alla crisi cagionata dall’emergenza Coronavirus, tramite debito pubblico, alla riunione dei Ministri dell’economia e delle finanze (cd. “Ecofin”) che si terrà oggi.
Premesso che è indispensabile trovare una soluzione condivisa tra gli Stati europei, poiché tra qualche tempo gli effetti della crisi, sanitaria ed economica, non saranno avvertiti soltanto negli Stati a più ampia espansione del virus ma anche nei quattro Stati virtuosi, dati, peraltro, gli stretti rapporti esistenti tra i membri dell’Unione dovuti al mercato interno, non si può non constatare che, probabilmente, nel vertice europeo si è persa una buona occasione per dare una svolta all’integrazione europea, seguendo un percorso e con la previsione di una struttura istituzionale alternativi al fiscal compact e al MES, in considerazione di condizioni contingenti che, come ha correttamente sottolineato il presidente francese Emmanuel Macron, stanno simmetricamente colpendo tutti gli Stati membri. L’imminente riunione ministeriale in sede di Consiglio dell’Unione dovrà così decidere con gli strumenti finanziari che, in base ai Trattati, l’Unione ha già a sua disposizione, salvo novità.
Alla luce di queste considerazioni si potrebbe fare a meno dell’Unione europea in questa situazione di emergenza sanitaria?
Direi proprio di no. Nonostante il Premier italiano, durante l’ultima riunione del Consiglio europeo, abbia affermato, in un momento di tensione, di volere fare a meno degli interventi finanziari europei, considerata la loro portata, quantitativa e qualitativa, sarebbe irragionevole privarsene. Bisogna quindi utilizzarli e, anzi, cercare di trovare soluzioni affinché possano essere incrementati per avere più incidenza possibile.
Nessuno degli Stati europei, per quanto forte ed efficiente, è in grado, in una situazione del genere, di fare a meno degli altri. L’emergere di impulsi nazionali è normale nei momenti di difficoltà e lo dimostra la chiusura delle frontiere, con la sospensione di fatto della libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, adottata, come primo provvedimento, allo scoppio della pandemia, da alcuni Stati membri. Come se un semplice provvedimento limitativo della libera circolazione delle persone all’interno del territorio statale, diretto indifferentemente sia ai cittadini nazionali sia ai cittadini stranieri, e giustificato per motivi di sanità pubblica, non potesse essere, di per sé, sufficiente a bloccare anche i transiti alle frontiere. In un momento di difficoltà o di paura per un pericolo, qual è quello che attualmente stiamo vivendo, lo straniero diviene il primo soggetto che una comunità statale tende in genere a colpire, operando nei suoi confronti un trattamento differenziato dal resto della collettività o impedendogli di entrare in territorio nazionale, così da accrescere nel Paese la percezione di sicurezza. Con queste modalità, tuttavia, si alimenta quel sentimento di appartenenza nazionale che è proprio, per definizione, di ciascuna societas statale ma che in un momento come questo rischia di dividere l’Europa, rendendola economicamente e politicamente più debole.
Gli Stati europei hanno già vissuto due guerre mondiali divisi, si deve evitare che questa “guerra sanitaria” li separi e li veda nuovamente coinvolti su fronti opposti. È la volta di dimostrare che il vecchio continente è maturo per grandi traguardi.
Bianca Desideri