La società degli animal laborans

Nella freneticità delle giornate che viviamo fermarsi a riflettere sulla “condizione umana” non è contemplato. Eppure, concedersi del tempo per farlo, ci regalerebbe una nuova prospettiva attraverso la quale guardare noi stessi, la nostra vita privata e quella lavorativa.

Già nel 1958, la filosofa di origine tedesca Hannah Arendt si chiese come si potessero ricreare le condizioni attraverso le quali l’uomo, attraverso il lavoro, potesse realizzare, in maniera dignitosa, la propria esistenza umana.

La Arendt è stata la prima a manifestare l’importanza della necessità di “agire”, in un mondo pervaso dalla tecnologia e dal totalitarismo.

Sono trascorsi più di sessant’anni e quella riflessione appare straordinariamente attuale.

Secondo il pensiero arendtiato la vita umana si esplicava nel lavoro, nell’opera e nell’azione.

Il lavoro inteso come atto indispensabile per garantirsi la sopravvivenza, l’opera come creazione di manufatti che la facilitano e, infine, l’azione come capacità che permette la relazione con gli altri.

Al pari della società descritta dalla Arendt, anche quella in cui viviamo oggi, sembra sancire il primato dell’attività lavorativa sulle altre due attività.

Una situazione simile, però, identificando l’uomo nell’animal laborans (colui che lavora esclusivamente per garantirsi la sopravvivenza) di fatto, rende legittimo l’appiattimento delle sue due altre facoltà. Questo squilibrio, alla lunga, rende l’uomo vittima della vorticosa spirale produzione/consumo, che lui stesso alimenta, decretandone la sconfitta.

Ora, come allora, sembra dunque necessario ricordarci dell’importanza di agire (dal latino agere mettere in movimento qualcosa) al fine di ri-qualificare la nostra “condizione umana” e difendere la nostra libertà.

Essere attori protagonisti della nostra vita è una necessità, ma anche un dovere, per ottemperare il quale, è opportuno uscire dalla gabbia che, l’essere esclusivamente animal laborans, ci riserva.

Bisogna favorire la prospettiva del lavoro non solo come mezzo attraverso cui garantirsi la sopravvivenza ma anche come strumento che permette relazionalità e convivialità.

Bisogna lasciare spazio alla creatività e al pensiero così che, l’homofaber (descritto dalla Arendt) che c’è in noi, sia libero di eseguire l’opera.

Bisogna agire per superare la banalità del quotidiano e la ripetitività delle esigenze biologiche.

Solo in questo modo, la nostra vita acquisisce un significato profondo e da vittime della produttività e del consumismo, diventeremo gli artefici di spirali di libertà, per noi stessi e per gli altri.

Barbara Guercia