Nell’ultimo libro di Cicala la storia raccontata dalle canzoni

È stato presentato nella Sala Martucci del conservatorio di musica partenopeo “San Pietro a Majella” il recente volume scritto da Teodoro Cicala “Napoli: allegro, ma non troppo”, poco più di trecento pagine, pubblicate da “Grauseditore”, a sostanziarne il sottotitolo “La canzone, colonna sonora della nostra storia”.

Ogniqualvolta uno scrittore si accinge a scrivere un libro, ha diverse scelte da compiere, tra queste, una, sicuramente, di carattere etico, un’altra di ordine stilistico.

Quella di carattere etico è la stessa che si trova ad affrontare un genitore nei confronti dei propri figli, un insegnante nei confronti della propria scolaresca, un medico rispetto ai suoi pazienti, un giornalista riguardo ai propri lettori o un uomo politico nei confronti dei propri amministrati, insomma chiunque si proponga di offrire al prossimo qualcosa. Questo scelta è se dare all’altra parte ciò che l’altra parte chiede, o, principalmente, ciò che, in buona fede, si ritiene sia meglio per essa. Un insegnante che scegliesse la prima opzione chiederebbe per prima cosa ai suoi scolari cosa volessero fare. Con ogni probabilità gli alunni gli risponderebbero di non voler far nulla o solo spensierato divertimento. E se fossero quegli stessi alunni a dover scegliere, anno per anno, il proprio docente, con ogni probabilità quell’insegnante sarebbe ai primi posti nelle loro preferenze. Ma quando quei giovani discenti divenissero adulti e avessero bisogno di strumenti culturali per affrontare il mondo, proprio quegli strumenti che quell’insegnante non ha voluto, o saputo dar loro, non avrebbero certo alcun ricordo di quel didatta, o sarebbe sicuramente un ricordo amaro. Se un genitore concedesse ai figli tutto ciò che questi volessero, darebbe luogo a giovani viziati e inetti. Se un giornalista scrivesse solo ciò che si vuol leggere farebbe misera piaggeria. Se un uomo politico promettesse al suo elettorato ciò che il suo elettorato volesse farebbe subdola demagogia. E se un medico somministrasse ai suoi assistiti dolci caramelle in luogo di amare, ma opportune, medicine possiamo immaginare facilmente l’epilogo di tale cura. D’altronde, “vox populi, vox Dei”, ed è ben noto il modo di dire secondo il quale il medico pietoso fa la piaga verminosa.

E uno scrittore?

Se uno scrittore intendesse dare ai lettori principalmente ciò che essi volessero, si adeguerebbe ai tempi e, in un’epoca come la nostra attuale, di produzioni cinematografiche e televisive che traboccano di violenza e di mezzi di informazione di massa che paiono sempre più compiacersi di ogni mostruosa efferatezza, carezzerebbe certo il genere poliziesco, semmai colorato di una certa connotazione regionale, come seguite serie televisive esemplificano.

Sì, perché in questa nostra epoca anche palesemente incolta, dove si legge sempre meno ed i libri, quindi, non hanno facilità di vendita, il nostro scrittore sicuramente vagheggerebbe il sogno di una ben più remunerativa trasposizione televisiva o cinematografica del suo libro.

Diversamente, uno scrittore che propendesse per dare ai lettori ciò che, in buona fede, ritenesse migliore per loro apparterrebbe alla schiera di figure come George Orwell, con il suo profetico “1984” o la sempiterna storia della sua “Fattoria degli animali”, come Alessandro Manzoni con l’intramontabile “latinorum” di don Abbondio, i capponi di Renzo o la corruttela di Azzecca-garbugli, o ancora come Tomasi di Lampedusa con il suo “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, scrittori, insomma, propensi ad allargare le menti e ad aprire gli occhi all’umanità.

Teodoro Cicala, in “Napoli: allegro, ma non troppo”, scrive di napoletanità, argomento, certo, vendibilissimo, se però fosse quella napoletanità oleografica, tutta pizza, mandolino, Pulcinella ed un popolino sì, furbo, intelligente e simpatico, ma guitto, sì da non toccare la suscettibilità di certi lettori fuori dai confini cittadini. Ma la scelta del nostro scrittore è quella, invece, di una napoletanità nobilissima ed invidiabile, quella di una sensibile, acuta attenzione per il mondo ed i suoi cambiamenti e, contemporaneamente, un’eccezionale, spontanea inclinazione per l’arte dei suoni, che la hanno portata a festeggiare o stigmatizzare, con le sue canzoni, non di rado artisticamente pregevolissime, l’incidenza di innovazioni tecnologiche, come la lampadina elettrica, il cinematografo o l’automobile, iatture belliche e sociali, comportamenti umani vecchi come il mondo ed altro ancora, ed è in questa luce che tanta produzione musicale partenopea si rivela impareggiabile documento antropologico e civile. Basta solo pensare alla toccante, umanissima testimonianza che sa dare del duro fenomeno dell’emigrazione degli inizi del secolo scorso.

Circa lo stile che lo studioso adotta primeggia la congruità. Uno stile, infatti, chiaro perché l’opera è divulgativa, mai sciatto perché è testo colto e destinato a durare. In conclusione un omaggio, il suo, giammai solo alla sua città, ma al mondo intero ed alla storia, un omaggio che il mondo intellettuale, di oggi e di domani, non può assolutamente trascurare.

Rosario Ruggiero