Poveri, nonostante l’impiego

Il termine inglese è “working poors”, certamente meno desolante della traduzione italiana in  poveri con un lavoro, che non lascia spazio ai fraintendimenti; questa è una nuova categorizzazione che torna con sempre più insistenza nelle statistiche sul lavoro.

Secondo un’indagine Censis-Confcoperative in Italia ce ne sono circa 3 milioni (dati del 2016) e sono un gruppo eterogeneo, composto da giovani che pur di inserirsi nel mercato del lavoro accettano qualunque retribuzione in ingresso, ma anche da lavoratori licenziati che per reinserirsi si adattano a contratti più che precari o a part-time subiti per necessità.

La ricerca del Censis sottolinea pure che negli ultimi anni la maggior parte delle assunzioni si è caratterizzata per i livelli bassi e per una accettazione passiva di condizioni di lavoro svantaggiose che, creando una sorta di gabbia attorno al lavoratore, lo intrappolano, per necessità, tra precarietà e discontinuità. Accettare un lavoro ad ogni costo, come ha dichiarato sull’argomento il Presidente di Confcoperative Maurizio Gardini, è stato uno degli effetti più perversi della crisi.

Tuttavia, il fenomeno dei “working poors” non è appannaggio esclusivo dell’Italia, problemi di tal tipo ci sono anche in Grecia, Portogallo, ma anche in Francia ed in Spagna; tuttavia in una graduatoria che considera la fascia più fragile di lavoratori a rischio povertà, quella che va dai 20 ai 29 anni, l’Italia mostra un tasso del 12%, non di tantissimo superiore alla media europea che è del 10%. Quello che della ricerca Censis-Confcoperative colpisce, nel nostro Paese, è la distribuzione regionale di questi poveri con un lavoro: la bassa intensità lavorativa è quasi del 30% in Campania, mentre il Trentino Alto Adige si riduce ad un drastico 6%. Gli operai sono la categoria più esposta, ma è presente anche una piccola quota di dirigenti, quadri ed impiegati, in condizioni di povertà assoluta; lavoratori che dovrebbero essere privilegiati, con uno stipendio che può variare dai 2mila ai 3mila euro nel caso di un impiegato, e che si riducono in povertà magari a causa di una separazione, o di un mutuo.

Basta osservare la folla eterogenea che frequenta le mense pubbliche per avere un’idea delle ragioni dietro alla ricerca Censis-Confcoperative: essere poveri perché non si guadagna abbastanza nonostante il lavoro si traduce in una riduzione progressiva del reddito e con esso della capacità di risparmio, nonché del potere d’acquisto.

Rossella Marchese