Jobs Act e precarietà: chi ci ha guadagnato?

Recentemente l’INPS ha pubblicato alcuni dati relativi al saldo tra i contratti cessati e i nuovi contratti stabili.
Colpisce immediatamente il calo rispetto all’anno scorso: seppure le stabilizzazioni (intese come conversioni di altre formule contrattuali e nuovi contratti tout court) risultino superiori alle cessazioni, tale delta è in forte diminuzione rispetto agli anni precedenti.
Difatti il saldo è inferiore del 78% rispetto al 2015, anno nel quale gli incentivi per le stabilizzazioni previsti dal Governo erano al loro massimo, ma anche rispetto al 2014.
Nel 2014 non erano previsti incentivi eppure le stabilizzazioni furono superiori di oltre il 32%.
A questo dato si associ il fatto che il debito pubblico italiano è ai suoi massimi storici, che la crescita è ampiamente al di sotto dell’1% e che la disoccupazione non si riduce sensibilmente.
L’unico dato positivo è il rapporto deficit/PIL al di sotto del 3% come richiesto dall’Europa.A prescindere da come la si pensi, dagli orientamenti politici o dall’affezione più o meno nutrita nei confronti dell’esecutivo in carica, appare abbastanza evidente come il Jobs Act non abbia rappresentato la chiave di volta per il nuovo boom economico italiano, a dispetto degli annunci.
Nonostante i proclami, poi, a distanza di oltre un anno dai primi effetti dei decreti attuativi, possiamo ragionevolmente supporre che non sia nemmeno la giusta risposta al problema occupazionale (soprattutto giovanile) che affligge l’Italia.
Ora una domanda sorge spontanea: tutto questo era prevedibile?
In effetti le parti sociali, ci si riferisce alle Organizzazioni Sindacali dei lavoratori, avevano denunciato l’inadeguatezza delle misure rispetto agli scopi prefissati (o quantomeno proclamati!) e, con ogni probabilità, anche l’esecutivo era consapevole, avendo peraltro al proprio servizio uno stuolo di capaci professionisti, che le norme in oggetto non fossero la giusta risposta.
Dunque le cose sono due: o il Governo, nonostante le evidenti criticità palesatesi, avrebbe voluto comunque osare con un provvedimento ab origine considerato più dannoso e dispendioso che altro; oppure lo scopo del provvedimento non era affatto quello che si proclamava, e in questo caso ci sarebbe da chiedersi se si fosse in buona o cattiva fede.
A guardare i mesi precedenti all’emanazione della legge delega prima e dei decreti attuativi poi, infatti, saltano all’occhio gli enfatici commenti di autorevoli esponenti del Governo, i quali individuavano (coerentemente con alcuni esecutivi delle scorse legislature) nello Statuto dei Lavoratori, e più precisamente nell’art. 18, il feroce nemico da abbattere perché si potessero rilanciare economia, occupazione, investimenti nostrani ed esteri.
Stando a quanto si affermava, in Italia non si potevano licenziare i fannulloni e questo avrebbe spaventato gli imprenditori, che con Confindustria infatti chiedevano a gran voce l’intervento correttivo delle norme.
Tutti questi proclami, speculando peraltro su una grave crisi economica che gli italiani vivevano e vivono, facendo leva sulla – è proprio il caso di dirlo – sulla fame delle persone, non hanno fatto altro che alterare, drogare, l’opinione pubblica che, differentemente rispetto a quanto accaduto in Francia, non ha osato alcuna reazione o “resistenza”.
È vero che in Italia, ex art. 18 dello Statuto, non fosse possibile licenziare?
In realtà questa era e rimane una bufala colossale: il nostro Ordinamento prevedeva infatti le tre tipologie di licenziamento (giustificato motivo soggettivo, giustificato motivo oggettivo e giusta causa) già prima delle misure del Governo.
La tutela, d’altro canto fortemente mitigata da quanto previsto già dalla legge Fornero, riguardava solo ed esclusivamente quei licenziamenti dal giudice dichiarati come illegittimi.
Le norme introdotte dal Governo non possono essere definite “sbagliate”: lo sarebbero solo ed esclusivamente se queste non avessero prodotto gli effetti che in realtà si ponevano di produrre.
È poco credibile pensare che per il Governo fosse indispensabile vietare il reintegro di una madre di famiglia, di un padre o di un giovane, letteralmente cacciati dall’azienda illegittimamente, affinché l’economia del paese ripartisse.
Ebbene non si può fare altro che giungere ad una diversa conclusione rispetto alle reali finalità dei provvedimenti, soprattutto se letti nella loro complessità: i decreti infatti intervengono radicalmente anche in altri due ambiti, che qui ci si limita ad accennare, e sono il controllo a distanza (prima vietato, ora consentito) e il demansionamento (ormai riservato all’insindacabile e unilaterale prerogativa del datore di lavoro).
Una cosa è certa, il Jobs Act ha creato un nuovo lavoratore: questi potrà essere osservato e controllato, senza saperlo in quel momento, dal proprio controllore; questi, qualora non fosse ritenuto abbastanza produttivo dal proprio padrone, potrà essere adesso con facili pretesti preposto a mansioni inferiori e dequalificanti, rispetto a quelle stabilite al momento dell’assunzione; questi, qualora le prime due azioni si fossero rivelate insufficienti, potrà essere cacciato dal suo posto di lavoro senza alcuna speranza di reintegro.
A questo punto verrebbe da chiedersi: qualora questo nuovo lavoratore subisse indebite pressioni in azienda, sarebbe disposto a resistervi? Se dovesse accadere che questi subisca minacce di vario tipo, sarebbe disposto a denunciarle? Nel caso in cui subisse ritorsioni o umiliazioni di sorta, sarebbe disposto a combattere per onorare la sua dignità e quella della sua opera?
Ancora ci si potrebbe chiedere: quanto il nuovo lavoratore sarebbe disposto a “regalare” al suo padrone? Ad esempio, sarebbe propenso rinunciare a qualche pausa prevista dal contratto? Sarebbe disponibile a lavorare in condizioni di minore sicurezza rispetto a quelle prescritte dalla legge? Sarebbe così gentile da restare qualche ora in più rispetto all’orario stabilito, senza che questo tempo gli sia retribuito?
Astenendosi da valutazioni di tipo politico e provando a restare in un ambito più morale che altro, la domanda conclusiva è: il Jobs Act quali reali fini si poneva? Chi voleva realmente favorire o aiutare? Si può davvero definire una “svista”, un provvedimento “sbagliato”, un “errore”?
Ognuno maturi liberamente la propria opinione.
Savino Balzano