Guru dell’era digitale, tra i più attenti osservatori della “rivoluzione digitale” in corso, Derrick de Kerckhove è sociologo, accademico, giornalista e direttore scientifico di Media Duemila, allievo di Marshall McLuhan, ha diretto dal 1983 al 2008 il McLuhan Program in Culture & Technology dell’Università di Toronto. E’ stato professore all’Università di Toronto e docente presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II.
Con il professor de Kerckhove, nel corso dell’intervista rilasciata a Professione Bancario, abbiamo parlato di comunicazione, smart working, Intelligenza Artificiale, società.
Professor de Kerckhove ha collaborato a lungo con il professor McLuhan ed ha diretto il McLuhan Program in Culture & Tecnology all’Università di Toronto, quanto ha inciso questa esperienza nell’elaborazione delle sue teorie?
Direi che l’esperienza dell’insegnamento di McLuhan ha definito tutta la mia carriera come ricercatore ed anche come professore. Prima di sentire McLuhan non pensavo che l’Università fosse capace di parlare del presente specialmente nel mondo della letteratura, dell’arte, ecc. L’Università parlava sempre di cose passate, McLuhan era il primo che ogni giorno, in ogni classe, parlava del presente e questo è un fatto essenziale in un tempo di cambiamenti quale quello che viviamo, guardare il presente per trovare i segnali deboli del futuro nel presente.
L’esperienza del Covid-19 ha ridisegnato in parte l’architettura della comunicazione tra le persone?
Sì, certamente. In questa situazione abbiamo avuto la possibilità di usare di Zoom, Meet, altre piattaforme per incontrarci, per insegnare, per fare webinar, essenzialmente per stare a casa e mantenere il social distancing. Il Covid ha abituato la gente a stare in casa e a trovare nuovi modi di fare le vecchie cose, nuovi modi di incontrarsi, di condividere, di lavorare, nuovi modi di essere simultaneamente a distanza in telepresenza. Dobbiamo anche considerare che vedere la gente sullo schermo è molto diverso perché è un’astrazione, manca quasi lo spazio intervallare tra la gente. Quando sei in una stanza in tre dimensioni puoi vedere le persone e misurare, o coscientemente o incoscientemente, il valore indicativo intuitivo del rapporto fisico tra le persone. Questo è molto meno forte sulle piattaforme, es. Zoom. Per dialogare e comunicare siamo d’accordo di avere solo informazione espositiva e visuale? No, perché c’è quasi l’eliminazione delle altre forme di comunicazione.
E’ d’accordo sulla definizione di “distanziamento sociale” adottata dagli esperti per garantire una distanza di sicurezza a tutela della salute delle persone?
Chiaro e funzionale, sono d’accordo perché il problema del Covid è il contagio, è molto personale e rende la comunicazione più complessa. Richiede nuove maniere, ad esempio toccare gomito/gomito invece di porgere la mano, è anche divertente, tutti sono un po’ imbarazzati, non si può stringere la mano ma si vuole comunque far comprendere di considerare la persona mantenendo il contatto fisico che però non sarebbe necessario in quanto basta guardare la persona.
Abbiamo visto in questi mesi di emergenza Covid-19 che le tecnologie sono state protagoniste della nostra vita. Abbiamo lavorato, studiato, partecipato a eventi, fatto acquisti, ci siamo tenuti in contatto con amici e parenti e non solo. A suo avviso quale impatto hanno avuto e avranno sul nostro presente e sul prossimo futuro? Quanto ci faranno sentire “soli” o semplici “ingranaggi” dei processi sociali e produttivi?
Le tecnologie sono state protagoniste. Nel prossimo futuro due sviluppi tecnologici guideranno il comportamento personale e sociale: la duplicazione dei nostri dati il c.d. nostro “gemello digitale” e il controllo sociale basato sul tracciamento dei dati, i social credits. L’accelerazione della trasformazione digitale è uno dei due grandi effetti del confinamento, talmente è vero che anche tanti anziani che in Italia non volevano neanche pensare alla rete o al computer lo hanno fatto per vedere nipoti o persone care, per sentire canzoni, ecc. Non sono diventati veramente grandi fan ma almeno praticanti di questa tecnologia e molti hanno ha scoperto che è utile. La seconda cosa più importante è che il confinamento ha finalmente fatto vedere cosa potrebbe succedere con l’ambiente se si potessero fermare un po’ gli eccessi dell’economia. L’idea di vedere i delfini nei canali di Venezia ha colpito un sacco di gente, anche gli animali che tornavano nei piccoli villaggi, i lupi, o un gruppo di cinghiali selvatici in Inghilterra. L’aria era pura, non c’era suono, rumore, non si sentivano macchine; non sentire rumore generale è stato un beneficio enorme sulla sensibilità e sul benessere, vuol dire che abbiamo imparato molto in questo tempo di confinamento. Qualcuno ha anche pensato che si potrebbe proporre, dopo il Covid, ogni anno, oltre alle vacanze normali, anche un mese pagato dallo Stato in cui fermarsi, tornare a casa e non utilizzare le macchine per dare respiro all’ambiente. Una buona idea anche se difficilmente realizzabile.
Il Covid-19 ha visto l’attuazione del più grande e massivo esperimento in contemporanea di lavoro agile, o più generalmente definito smart working. Pensato soprattutto come ausilio per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro è ora percepito dalle lavoratrici e dai lavoratori e dalle aziende come una modalità innovativa di organizzazione del lavoro. Ritiene che possa diventare modalità prevalente di lavoro per quelle aziende che possono attuarlo? Quali le possibili conseguenze?
Credo che lo smart working sarà la tendenza del futuro immediato. E’ una buona cosa per sostenere la famiglia, mamma e papà, i genitori insieme, nella famiglia aumenta l’accordo tra la coppia, tra i partner e i figli, consente di gestire il tempo in modo un po’ diverso, ma c’è ancora qualche beneficio che non è stato avvertito da tutti e che cambierà le abitudini di tutti verso il lavoro e le vacanze che sono le cose di cui abbiamo bisogno veramente. C’è una tendenza inesorabile ad aumentare tutto, a consumare, bisogna incominciare a comprendere il concetto che ciò non è necessario, ad esempio cambiare vestiti ogni giorno, e questo anche un po’ per salvare l’ambiente.
Ritiene che l’Intelligenza Artificiale cambierà il nostro modo di vivere e di lavorare?
Sì, la nostra vita è già completamente regolata dall’Intelligenza Artificiale ma non abbiamo ancora visto tutte le cose importanti che possiamo avere grazie all’I.A. e non dobbiamo dare per scontato quello che abbiamo già. Alexa, come Siri, ad esempio, è un sistema di Intelligenza Artificiale, è un assistente digitale.
Quanto incide l’Intelligenza Artificiale nel settore bancario?
Incide già. Dirige le transazioni, assicura la sicurezza, ecc. Ricordo che nel 1989 quando ho scritto il mio libro Brainframes, allora che l’Intelligenza Artificiale incominciava appena a muovere i suoi passi, facevo già un paragone tra sistemi esperti e sistemi neuromimetici che permettevano alla banca di decidere di prestare denaro secondo lo studio di varie aspetti, abilità, personalità, attitudini, spaccato di esperienze di un candidato al prestito bancario. L’Intelligenza Artificiale quindi non è per niente una novità nel sistema bancario e non è all’inizio, ormai si occupa anche della blockchain, dei bitcoin. La banca passerà certamente attraverso una grande crisi del denaro, non ancora incominciata ma che ci sarà. Il settore bancario è totalmente dipendente dall’Intelligenza Artificiale.
I Millennial hanno superato meglio dei migranti digitali l’esperienza totalmente “digitale” di questo periodo di pandemia. Si può pensare che svilupperanno una società differente da quella che noi oggi conosciamo e viviamo?
Onestamente credo di sì, intanto non avranno molta scelta. I giovani hanno un sistema nervoso che è capace di cambiamento, hanno ancora una certa freschezza della personalità, del mondo.
La tecnologia aumenta il divario tra le nazioni e tra gli individui spesso rappresentando un ulteriore elemento di discriminazione e d’impoverimento. La cultura della solidarietà può intervenire a ridurre questo divario?
Non ci credo troppo perché sono esempi di moda e non durano. La differenza viene dalla buona volontà delle persone, viene da un senso di responsabilità interno o da una forza esterna. Noi siamo motivati dall’interno, il cristiano è motivato dall’amore, dalla gente; il cristianesimo è una religione di solidarietà ma anche una religione personale, interna alla persona e la porta ad aver un senso di responsabilità verso l’altro ma questo oggi si sente sempre meno. Ormai la responsabilità viene non più dalla consapevolezza vera del ruolo nella società ma dal potere, dalla regola della legge che ormai viene dalla forza esterna, si chiama algoritmo esterno. Il linguaggio ormai ha potere su di noi e non il contrario come prima e dobbiamo fare i conti con questo.
Bianca Desideri
(Foto: Lorenza Delucchi, Communications)