Intervista a Cesare Damiano
Cerchiamo di focalizzare la disciplina dei licenziamenti illegittimi. L’impressione – anche alla luce di diverse sentenze, una, la più recente, perfino della Corte Europea di Giustizia – è che la situazione sia, in qualche modo confusa.
È vero. In poche parole, si può tranquillamente affermare che esista una “disarmonia” dell’attuale sistema dei rimedi contro il licenziamento illegittimo, la quale pone in luce la mancata rispondenza a un disegno riformatore coerente. Questa constatazione rafforza l’esigenza di una riforma legislativa che ci riporti in una situazione di legittimità ristabilendo il principio di eguaglianza.
Una conclusione corroborata dalla recente pronuncia della Corte di Giustizia europea (CGUE 17.3.2021 – C-652/2019) che, con riferimento ad un’ipotesi di conversione del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, pur affrontando profili diversi rispetto a quelli della “sentenza pilota” del 2018, ha evidenziato nuovamente le disparità di trattamento direttamente riconducibili al Jobs Act.
Partiamo dal principio. Qual è, dunque, il quadro di riferimento rispetto a queste disparità?
Negli ultimi anni, la Corte Costituzionale è stata sollecitata a pronunciarsi sulla disciplina dei licenziamenti illegittimi, sia per i vizi formali che di merito.
A inaugurare il filone delle pronunce in materia è stata la sentenza n. 194/2018, con la quale la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 3, comma 1 del D.lgs. 23/2015 (uno dei decreti attuativi del Jobs Act) sotto il profilo del metodo di calcolo dell’indennità da corrispondere, in caso di licenziamento illegittimo, ai lavoratori assunti con il Contratto a tutele crescenti.
Alla base di tale procedimento, la decisione di un giudice che ha rimesso quell’articolo alla Consulta perché aveva dedotto una violazione del principio di eguaglianza causato dalla disparità di trattamento tra i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015. Questo perché la norma applicava una tutela inferiore a questi ultimi. La Corte, dal canto suo, aveva giudicato infondato tale motivo, in quanto la volontà di circoscrivere temporalmente l’applicazione di norme successive nel tempo risponde alle necessità politiche di turno: quindi, non ne rileva una violazione del principio di eguaglianza. Questo ovviamente, nel rispetto dei principi costituzionali, permette di avere nella stessa azienda regimi sanzionatori differenti in base alla data di instaurazione del rapporto di lavoro.
In secondo luogo, il giudice aveva rilevato una violazione del principio di eguaglianza derivante dal differente trattamento applicato ai lavoratori con qualifica dirigenziale e agli altri lavoratori con diversa qualifica assunti dopo il 7 marzo 2015 in quanto, non applicandosi ai primi la nuova disciplina, gli stessi avrebbero continuato a godere di indennizzi con importi minimi e massimi ben superiori rispetto ai secondi. Anche questo motivo, tuttavia, era stato ritenuto infondato, considerato che il dirigente presenta delle peculiarità contrattuali così significative da giustificare quella diversità di trattamento. Terzo, il il ricorso – anche su questo non accolto – aveva sollevato il contrasto della disciplina in esame con gli articoli 76 e 117, comma 1 e, più specificatamente, con il parametro interposto dell’art. 10 della Convenzione OIL 158/1982 e dell’art. 30 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea per il quale “Ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione Europea e alle legislazioni e prassi nazionali”.
Ma una questione è stata ammessa. Mi riferisco a quella che riguardava la violazione, da parte dell’art. 3, comma 1, D.lgs. 23/2015 – che ho citato prima – degli articoli 3, 4, comma 1, 35, comma 1, 76 e 117, comma 1, della Costituzione – gli ultimi due in riferimento all’articolo 24 della Carta sociale Europea: “tutti i lavoratori hanno diritto ad una tutela in caso di licenziamento”-. La Corte ha dichiarato infatti l’illegittimità nella parte in cui quantificava l’indennità, in caso di licenziamento ingiustificato, in un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.
E questo cosa significa?
Che la tutela risarcitoria, la quale deriva da un calcolo matematico basato esclusivamente sul parametro dell’anzianità di servizio, non rappresenta un giusto ristoro del danno causato da un licenziamento illegittimo. E anche – voglio sottolinearlo – che non svolge alcuna funzione dissuasiva nei confronti del datore di lavoro nell’esercizio del suo potere di recesso.
È anche stato osservato che l’indennità indicata nel comma in questione riveli la sua inadeguatezza soprattutto nei casi di limitata anzianità di servizio. Infatti, nonostante il D.lgs. 96/2018 abbia successivamente aumentato i limiti minimo e massimo dell’indennità, rispettivamente da quattro a sei e da ventiquattro a trentasei mensilità, la determinazione della stessa, pur partendo da una valutazione legata all’anzianità di servizio, deve poter tenere conto anche di altre specificità del caso concreto. Tocca, dunque, al giudice – nella visione della Consulta – coniugare il metodo di calcolo basato sull’anzianità di servizio con altri criteri desumibili, in chiave sistematica, dall’evoluzione della disciplina normativa sui licenziamenti. Mi riferisco a criteri come numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti.
Ci sono stati, poi, altri giudizi della Corte
Esatto. Successivamente, con la sentenza n. 150 del 2020 la Consulta ha valutato le questioni di legittimità, per contrasto agli articoli 3, 4, comma 1, 24, 35, comma 1 della Costituzione, sollevate dai Tribunali di Bari e di Roma in merito ai criteri di determinazione dell’indennità per licenziamento affetto da vizi formali e procedurali secondo l’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015. In questo caso, i giudici che si erano rivolti alla Corte avevano ritenuto i licenziamenti oggetto della causa affetti da vizi procedurali e formali individuando, quale tutela applicabile, quella dell’articolo 4 del D.lgs. 23/2015, per il quale l’indennità deve essere “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità”.
La contemporanea applicazione dell’art. 18, comma 4 e 5 della legge 300/1970 – nota come “Statuto dei lavoratori” – ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, e degli articoli 3 e 4 del D.lgs. 23/2015 a quelli assunti successivamente, era stata ritenuta fonte di una tutela ingiustificatamente deteriore per questi ultimi. Il comma 4 dell’articolo 18 prevedeva infatti una tutela reintegratoria ed un’indennità di 12 mensilità, mentre il comma 5 un’indennità compresa tra un minimo di dodici mensilità e un massimo di ventiquattro. Al contrario, l’articolo 3, comma 1, e l’articolo 4 del D.lgs. 23/2015 prevedevano un’indennità inferiore compresa tra un minimo di due e un massimo di dodici mensilità. Inoltre, i giudici che avevano promosso il ricorso avevano ritenuto penalizzante ed irragionevole il criterio di calcolo dell’indennità, basato sulla mera anzianità lavorativa, per i lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015; tanto più perché lo stesso veniva indicato come esclusivo senza margine di adeguamento alle specificità del caso concreto.
La Corte Costituzionale, riprendendo le motivazioni già esposte nella sentenza n. 194 del 2018, ha così accolto il rilievo e ne ha esteso le conclusioni anche ai licenziamenti affetti da vizi formali e procedurali, dichiarando l’illegittimità dell’art. 4 del D.lgs. 23/2015 nella parte in cui determinava la misura dell’indennità in un “importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”. La tutela nella forma di indennizzo prevista veniva considerata dalla Corte non idonea ad “esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore”.
In questo senso, la Corte ha considerato ininfluenti le modifiche apportate dal “Decreto Dignità”. Questo perché quelle modifiche, pur intervenendo sulla quantificazione dell’indennizzo, non incidevano sul rigido meccanismo di calcolo basato sulla mera anzianità lavorativa.
Il giudice quindi, nel determinare l’indennità, dovrà partire dal criterio dell’anzianità. Poi, in chiave correttiva, potrà adeguare l’importo alle specificità del caso concreto, come, ad esempio, la diversa gravità delle violazioni compiute dai datori di lavoro, il numero degli occupati, la dimensione dell’azienda, il comportamento e le condizioni delle parti.
Nella sentenza la Corte ha così invitato il legislatore a intervenire per delineare una normativa più uniforme. Questo in ragione del fatto che la coesistenza di regimi sanzionatori differenti, frutto di interventi legislativi e politici estemporanei, può causare delle disparità di trattamento per i lavoratori.
Le sentenze 194 del 2018 e 150 del 2020 sanciscono, perciò, la chiara intenzione di restituire al giudice un potere discrezionale nel determinare il risarcimento nei licenziamenti illegittimi, sia per vizi sostanziali che formali e procedurali. E si deve sottolineare che questo è un punto fondamentale: perché, in tal modo, cade uno dei pilastri del Jobs Act: la certezza del costo del licenziamento. Ciò che emerge dalle pronunce, infatti, è proprio l’impossibilità per il legislatore di predeterminare il costo del licenziamento illegittimo.
Un fatto importante. Poi, c’è la recente sentenza n. 59 del 2021.
Infatti. Questa sentenza ha accolto la questione sollevata dal Tribunale di Ravenna circa la illegittimità, ancora una volta per contrasto ad articoli della Costituzione, cioè il 3, comma 1, il 41, comma 1 e 24 e il 111, comma 2 e dell’art. 18, co. 7, II periodo dello Statuto dei Lavoratori, come riformulato nella Legge Fornero.
La Corte ha rilevato che il carattere facoltativo della reintegrazione dimostra, innanzitutto, una disarmonia all’interno del sistema delineato dalla L. 92/2012 e, nello stesso tempo, viola il principio di eguaglianza. Le ragioni vanno individuate nell’aver previsto tutele diversificate, una obbligatoria e l’altra facoltativa, per due fattispecie di licenziamento: parlo di quelli disciplinare e per giustificato motivo oggettivo. Entrambe queste regolazioni sono caratterizzate da una manifesta insussistenza del fatto posto alla base del recesso stesso. Secondo la Corte, infatti, la differenza tra le due fattispecie non è sufficiente a giustificare una diversificazione tra l’obbligatorietà e la facoltatività della reintegrazione, in caso di accertata insussistenza del fatto.
Oltre alla violazione del principio di eguaglianza, la Corte ha irragionevole il criterio distintivo adottato. La valutazione di quale adottare tra la reintegra attenuata e l’indennizzo è lasciata alla discrezionalità del giudice, senza che siano, però, definiti dei criteri che la circoscrivano.
La Corte ha così dichiarato l’illegittimità della modifica dell’articolo 18 compiuta con la legge Fornero, nella parte in cui stabilisce che il giudice, accertata la manifesta insussistenza del fatto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo “può altresì applicare” e non “applica altresì” la tutela reintegratoria attenuata (la reintegrazione nel posto di lavoro oltre ad un’indennità non superiore a 12 mensilità).
L’effetto principale è, quindi, l’abolizione della possibilità per il giudice di stabilire un compenso economico al posto della reintegrazione attenuata. I cosiddetti “licenziamenti economici”, se illegittimi, secondo la Consulta vanno sempre equiparati ai licenziamenti per giusta causa nei quali la reintegrazione attenuata è obbligatoria.
Quale conclusione si può trarre da questa serie di interventi della Corte Costituzionale?
Come dicevamo all’inizio, il mio giudizio è che si debba ripartire da una riforma organica e, naturalmente, coerente con la Carta del licenziamento illegittimo. Non è giusto per nessuno regolare diritti e doveri a colpi di sentenze rese, purtroppo, inevitabili da legislazioni parziali e mal concepite rispetto a diritti e doveri sanciti dalla Costituzione.
Brunella Trifilio