Capitalismo, una storia d’amore

Capitalismo

Dopo l’offerta pubblica di acquisto e scambio di azioni, avvenuta nel 2020, lo scorso 12 aprile, si è conclusa l’acquisizione di Ubi Banca ad opera di Intesa Sanpaolo. Una volta spenti i riflettori e, soprattutto, una volta scomparse definitivamente le insegne di Ubi Banca è il caso di aprire una serena riflessione sui meccanismi di liberalizzazione del mercato economico, che, invece di creare posti di lavoro e ricchezza, stanno invece incrementando gli indici di povertà nel paese e nel mondo. Ubi Banca era considerato il terzo gruppo bancario italiano, un gruppo snello, redditizio e orientato al territorio, con una forte attenzione alla clientela, essendo per lo più nato dalla fusione di diverse banche popolari. Proprio le caratteristiche positive di Ubi e le sue performance hanno probabilmente acceso l’interesse di un’altra grande banca, “Intesa Sanpaolo”, che, in questo modo, ha realizzato l’ambizione di entrare nel novero delle principali banche europee.

Secondo un vecchio modo di dire “Il pesce grosso mangia il pesce piccolo” e il fatto che Ubi abbia avuto il ruolo del pesce piccolo potrà sembrare un evento eccezionale ma, invece, è normale se rivolgiamo la nostra attenzione ad altri ambiti economici, dove gli esempi sono tantissimi. Pensiamo alle aziende produttrici di automobili, al settore della grande distribuzione, alle società sportive, alla produzione industriale, dove non è insolito che i lavoratori vedano cambiare il marchio della loro azienda, dall’oggi al domani, magari con una semplice comunicazione inviata sul telefonino. Questa è la società capitalistica, del mercato globale, del neoliberismo che non ama le regole e che segue solo le logiche di mercato.

Nel caso delle banche però, più che in altri settori, le trasformazioni e le cessioni aziendali hanno assunto una connotazione più prudente e meno traumatica. Da un lato per la rilevante funzione economica del sistema bancario e dall’altro per la presenza nel settore di organizzazioni sindacali, piuttosto attente ed agguerrite. Infatti, i sindacati bancari hanno sempre svolto, con tenacia, un ruolo di freno e di controllo rispetto alle velleità aziendali di contenere i costi e di realizzare profitto. Ogni piano industriale, ogni cessione d’azienda, ha visto le organizzazioni sindacali in prima linea nel difendere diritti e prerogative dei lavoratori. Le aziende bancarie sanno che per realizzare i loro obiettivi, senza problemi, devono necessariamente raggiungere un accordo con i sindacati.

Tutto questo però non cambia il nodo cruciale di uno degli aspetti più preoccupanti del mondo globalizzato, ossia la facilità con cui le aziende vengono cedute o acquisite da altri proprietari anche stranieri. A proposito di proprietari stranieri, Report, storico programma d’inchiesta della Rai, nella puntata trasmessa lo scorso 14 giugno, ha parlato di Amazon, il notissimo portale di e-commerce, con una lunga inchiesta che ha messo in evidenza luci ed ombre dell’azienda di Seattle. Nonostante Amazon conti nel mondo oltre un milione di dipendenti, ricorre spesso al turn over dei dipendenti con contratti  precari. Molte critiche sono state poi fatte all’azienda americana anche per quanto i riguarda i livelli retributivi e i ritmi di lavoro. Quindi, anche nella granitica Amazon, dove il sindacato stenta a trovare una collocazione, è esplosa la protesta tanto che ci sono stati scioperi e manifestazioni nei magazzini Amazon in Francia, Spagna, Polonia, Germania. In Italia il primo sciopero nazionale dei lavoratori Amazon si è tenuto il 22 marzo scorso. Insomma, al momento, l’unico argine rispetto ad una economia che non vuol sentir parlare dei diritti dei lavoratori, è l’azione sindacale che è l’unica forza in grado di dare voce alle aspettative dei lavoratori.

Bryan Jones – City Manager Eastvale intervistato da un giornalista di Report ha commentato in questo modo: “Io penso che Amazon ha creato posti di lavoro. La domanda che dobbiamo farci è: può una società così fare grandi profitti? Se quella società ha inventato qualcosa che le permette di fare soldi, tanti soldi… perché non dovrebbe farli? Questo è il capitalismo, è così che vanno le cose in America.”

L’affermazione di Bryan Jones non fa una piega. Bisognerebbe, però, aggiungere che la società che fa soldi e che utilizza per fare questo le strutture statali, come strade, ferrovie, aeroporti, energia pubblica, strutture portuali, sicurezza   e quant’altro dovrebbe pagare le tasse, se non di più, come sarebbe giusto, almeno al pari dei suoi dipendenti. Invece, sempre secondo Report, apprendiamo che nel 2020 Amazon, in Europa, ha pagato su 54 miliardi di fatturato soltanto 77 milioni di euro di tasse, cioè lo 0,15%. Un po’ poco anche per una società prettamente capitalista.   Senza contare poi che il sacrosanto diritto dell’impresa di generare profitto non può certo calpestare i diritti di quanti con il loro lavoro contribuiscono alla realizzazione degli obiettivi aziendali.

Nella scena finale di “Capitalism – A Love Story” un film di Michael Moore, l’autore conclude con questa affermazione: “mi rifiuto di vivere in un paese del genere, e non me ne vado. Viviamo nel paese più ricco del mondo, ci meritiamo tutti un lavoro come si deve, assistenza sanitaria, una buona istruzione, una casa che sia casa nostra. Ci meritiamo tutti il sogno di Roosevelt. Ed è un crimine che non lo abbiamo. Né lo avremo mai, finché avremo un sistema che arricchisce i pochi a spese dei molti. Il capitalismo è un male, e non si può regolamentare il male. Bisogna eliminarlo, e sostituirlo con qualcosa che vada bene per tutti, e questo qualcosa si chiama Democrazia.”

Enzo Parentela