Il movimento #MeToo, contro le molestie sessuali in tutto il globo  

Me too, anch’io. Appena due parole usate da migliaia di donne in tutto il mondo per dare il via ad uno dei più massicci movimenti contro le molestie sessuali dei nostri tempi, premiato dal Time come persona dell’anno e guadagnandosi la copertina della prestigiosa rivista per lo scorso dicembre. Un movimento nato sulla scia dello scandalo del produttore cinematografico Harvey Weinstein, negli USA e divenuto ben presto valvola di sfogo di quante e quanti, almeno una volta nella vita, sono stati vittime di violenze sessuali ed hanno scelto di denunciarle pubblicamente dopo averle tenute nascoste per anni. Da qui l’uso dell’ormai celebre hashtag #MeToo, lanciato per la prima volta dall’attivista Tarana Burke e condiviso poi via social praticamente da tutto il mondo, pronto, evidentemente, a condividere i drammatici racconti delle molestie subite sui luoghi di lavoro, negli ambienti domestici, o dovunque si sia consumata la violenza.

L’ondata emotiva suscitata dalle innumerevoli denunce raccolte dal movimento non tende a scemare, anzi, sta portando con sé conseguenze globali davvero sorprendenti. Infatti, mentre “l’effetto Weinstein” ha avuto conseguenze in America, in Europa e in alcune parti dell’Asia, in Cina la situazione è diversa, ma qualcosa si stia muovendo anche lì.

Con fatica e a rilento stanno cominciando a emergere testimonianze anche in Cina, un Paese dove, secondo studi sociologici, l’80 per cento delle donne ha subìto nel corso della propria vita molestie sessuali. Se in Occidente il movimento #MeToo è iniziato dal mondo del cinema per poi diffondersi in altri ambienti, come lo sport e la politica, in Cina è iniziato nelle università. In Cina, l’asimmetria di potere tra professori e studenti è colossale e non è un caso che l’episodio da cui in Cina è iniziato il #MeToo abbia a che fare proprio con una ricercatrice universitaria, Luo Qianqian, che attualmente vive negli Stati Uniti e che il primo gennaio ha pubblicato su Weibo, l’equivalente cinese di Twitter, il racconto delle molestie subite dodici anni prima dal suo professore di informatica Chen Xiaowu: “ha tentato di saltarmi addosso in una stanza con la porta chiusa”. Luo ha spiegato che Chen l’ha poi lasciata andare perché lei continuava a piangere, ma “i seguenti anni della mia vita, quando lui era il mio supervisore al dottorato, sono stati un incubo”. Luo ha concluso dicendo che non si deve avere paura e ha esortato le altre donne a parlare usando l’hashtag #WoYeShi, cioè #MeToo.

Il suo post ha ottenuto più di tre milioni di visualizzazioni in un solo giorno. Prima di Luo, altre donne laureate in altre università avevano rivelato la loro esperienza di molestie sessuali o di aggressioni subite dai professori, ma avevano scelto di rimanere anonime.

La Cina non ha una legge sugli abusi sessuali e anche qui è molto radicato lo stereotipo per cui la colpa di una molestia ricade sulla donna che l’ha subita. Sui media del Paese le molestie sessuali vengono spesso soprannominate la “regola nascosta”: il cui sottotesto, non è quello per cui le donne vengano aggredite senza il loro consenso, ma che siano loro stesse ad accettare volontariamente una molestia per ottenere futuri favori.

Il problema sembra sempre il medesimo, da qualsiasi parte del mondo provenga: le molestie non vengono prese seriamente e le donne non parlano o per timore di ritorsioni, nel peggiore dei casi, o di non essere credute, nel migliore.

Rossella Marchese