Mobbing: risarcimento anche se mancano i presupposti

La Corte di Cassazione, con ordinanza 22 novembre 2017 del 16 febbraio 2018, n. 3871, chiamata a pronunciarsi sul caso di un dipendente di una Unità Sanitaria Locale (USL) che aveva subito condotte persecutorie sul posto di lavoro da diversi colleghi dall’estate del 2000 fino al suo successivo pensionamento (avvenuto nel febbraio 2004) ha stabilito il diritto del lavoratore non mobbizzato al risarcimento del danno. Nella fase di merito, infatti, veniva respinto il ricorso presentato dal dipendente in quanto, pur adducendo la fattispecie del mobbing, “non aveva fornito prova perché non aveva dimostrato l’intento persecutorio, da escludere nella fattispecie in quanto le condotte asseritamente lesive erano state tenute da soggetti diversi ed in momenti temporali anche molto distanti tra loro”.

La Suprema Corte, in estrema sintesi, ha rilevato che “ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi (…): a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b)l’evento lesivo della salute e della personalità del dipendente; c)il nesso eziologico tra condotta del datore di lavoro e superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d)la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”.

Per la Corte, nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di natura asseritamente vessatoria il giudice del merito, pur nell’accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati, seppure non accomunati dal fine persecutorio, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.

Maria Grazia Palmarini